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Nel dialogo tra uomo e natura

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Le opere dell’israeliano Yuval Avital negli spazi della Fondazione La Fabbrica del Cioccolato
/ 19.06.2017
di Alessia Brughera
Azione 25 del 19 giugno 2017

Ci sono edifici che sono profondamente legati al territorio su cui sorgono e alla gente che lo abita. Edifici che fino a un passato non molto lontano hanno costituito il fulcro attorno a cui ruotava un paese, entrando a far parte delle sue tradizioni e delle sue storie di vita. Uno di questi è sicuramente la Fabbrica del Cioccolato Cima Norma, costruita agli albori del Novecento a Torre, in Valle di Blenio, e rimasta in attività fino al 1968, arrivando a dare impiego, soprattutto nel periodo d’oro tra gli anni Cinquanta e Sessanta, a quasi trecentocinquanta persone.

Ad animare oggi la struttura bleniese è una fondazione che ne ha recuperato parte degli ampi spazi riconvertendoli in un contenitore di attività culturali, lodevole esempio di valorizzazione di un’ex area industriale dalle grandi potenzialità che può ritornare a essere un importante tassello per la regione circostante. Non a caso la fondazione ha voluto mantenere il nome di Fabbrica del Cioccolato, nel segno di una continuità della vocazione originaria dell’edificio come luogo di produzione, ora divenuto una fucina di idee, un cantiere creativo da cui far nascere progetti per riqualificare la Valle.

L’arte nella sua molteplicità di linguaggi diventa dunque lo strumento privilegiato attraverso cui generare connessioni con le peculiarità dell’ambiente, in uno scambio vicendevole di stimoli che esorta prima di tutto il coinvolgimento degli abitanti del posto, gente colta che ha viaggiato molto e che nel tempo ha saputo arricchire la Valle di Blenio con le proprie esperienze.

Il concetto di relazione tra arte e territorio è alla base del programma curatoriale della fondazione, diretto da Franco Marinotti, che ha preso avvio lo scorso anno e che è stato denominato con il neologismo foreignness, termine traducibile come estericità o estraneità, volto a indagare le differenti modalità del percepirsi esclusi da un contesto in perenne evoluzione.

Sull’instabile legame tra uomo e natura, fatto di contrasti e di ricongiungimenti, di discrepanze e di attinenze che bene esprimono l’isolamento dell’individuo, si è soffermato con le sue opere Yuval Avital, artista nato a Gerusalemme nel 1977 e residente a Milano, chiamato a esporre nelle grandi sale della Fabbrica del Cioccolato.

I suoi lavori nascono proprio da un serrato confronto con il paesaggio bleniese, esplorato e conosciuto a fondo nel mese di permanenza nella Valle, durante il quale Avital ha creato le tre installazioni presenti in mostra, ciascuna delle quali rappresenta un momento dell’interazione tra essere umano e territorio. Attraverso un approccio multidisciplinare capace di mescolare sapientemente l’immagine al suono, la materia alla tecnologia, l’artista israeliano dà vita a una triade di opere che delinea un percorso in cui l’uomo, da una situazione di alienazione e di dissidio, riesce a riconquistare la propria appartenenza alla natura.

Il primo lavoro, intitolato Foreign Bodies, è costituito da sette grandi schermi che proiettano simultaneamente i filmati realizzati da Avital in Valle di Blenio, dove, accompagnato da guide del posto, è riuscito a raggiungere anche i luoghi più impervi e selvaggi. In questi video i corpi nudi di sette ballerine si muovono come organismi solitari in preda a una brama panica di fondersi con le forme ancestrali di un paesaggio che li considera come elementi di disturbo. Le movenze sono semplici, i ritmi rallentati, a rimarcare come il contatto con il creato sia un processo che richiede sforzo, fatica e solennità.

Il rapporto tra uomo e natura è poi reso nella sua aperta conflittualità nella seconda installazione, chiamata Lands, un cerchio formato da terriccio agricolo delimitato da una serie di altoparlanti. La terra, qui utilizzata nel suo stato primordiale, si fa metafora di una natura che entra nelle dinamiche sociali diventando oggetto di diatribe e di rivendicazioni. I suoni diffusi accentuano la tensione mescolando rumori strappati all’ecosistema con le loro riproduzioni meccaniche e con voci computerizzate, in un crescendo di stimoli acustici in cui la natura sembra reclamare la sua libertà dalla manipolazione e dagli artifici umani.

Nella terza opera intitolata Reh’em, che in ebraico significa «grembo», Avital ci invita a entrare in uno spazio buio e chiuso, una sorta di ventre materno che accoglie e protegge: suoni legati alla gestazione e alla nascita della figlia dell’artista si avvicendano a quelli dei movimenti sismici del suolo, in una coesistenza che sa di riappacificazione tra l’uomo, ora consapevole e rispettoso, e la natura, ora madre premurosa e benevola, pronta a ospitarlo e a ricondurlo a una dimensione primigenia.